LA CORTE DEI CONTI 
           Sezione giurisdizionale per la Regione Liguria 
 
    Composta dai magistrati: 
        Pischedda dott. Mario - Presidente 
        Riolo dott.ssa Maria Giudice 
        Cominelli dott. Paolo Giudice relatore 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel giudizio iscritto al  n.
19804 del registro di segreteria, promosso dal Procuratore  regionale
della Corte dei conti per la Liguria nei confronti di: 
        l ) A. A., nato a .... il ...., all'epoca  dei  fatti  medico
del Servizio sanitario penitenziario, non costituito; 
        2) A. G., nato a .... codice fiscale  ....,  rappresentato  e
difeso dall'avv. Alessandro Ticli, codice  fiscale  TCLLSN64T19D969G,
pec a.ticli@pecavvpa.it giusta procura  in  calce  alla  comparsa  di
risposta, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio  sito  in
Palermo, piazza Vittorio Emanuele Orlando n. 6, all'epoca  dei  fatti
assistente della polizia penitenziaria addetto al servizio  matricola
del sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        3)  A.  M.,  nata  a  ....  il  ....  codice  fiscale   ....,
rappresentata  e  difesa  dall'avv.  Ardo  Arzeni,   codice   fiscale
RZNRDA63H29C621Y, pec ardo.arzeni@ordineavvgenova.it giusta procura a
margine della comparsa  di  risposta,  ed  elettivamente  domiciliata
presso il suo studio sito in Chiavari (GE), Galleria corso  Garibaldi
n. 21/5, all'epoca dei fatti vice  sovrintendente  della  Polizia  di
Stato addetta al servizio di vigilanza delle celle destinate a camere
di sicurezza del sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        4) B. G., nato a .... il ...., all'epoca dei fatti comandante
con  grado  di  Tenente  del  contingente  di  carabinieri   del   9°
Battaglione Sardegna, addetto al servizio di vigilanza  delle  camere
di sicurezza del sito penitenziario  provvisorio  di  Bolzaneto,  non
costituito; 
        5) C. D., nata a .... il ....,  all'epoca  dei  fatti  agente
della polizia penitenziaria, non costituita; 
    6) C. E., nato a .... il ...., codice fiscale ...., rappresentato
e   difeso   dagli   avv.   Stefano    Bertuzzi,    codice    fiscale
BRTSFN72S03H501D,   pec   stefanobertuzzi@ordineavvocatiroma.org    e
Salvatore Orefice, codice fiscale RFCSVT66P18G3888T,  giusta  procura
in calce alla comparsa  di  risposta,  ed  elettivamente  domiciliato
presso lo studio del primo sito in Roma piazza  Attilio  Friggeri  n.
13, all'epoca dei fatti capitano del disciolto Corpo degli agenti  di
custodia, con funzioni di responsabile e comandante del personale del
Servizio centrale  traduzioni  della  polizia  penitenziaria  per  il
Vertice G8 nel sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        7)  D.  O.  N.,  nato  a  ....  il  ....,   codice   fiscale,
rappresentato e difeso  dall'avv.  Ennio  Pischedda,  codice  fiscale
PSCNNE55C04L093T, pec ennio.pischedda@ordineavvgenova.it e  dall'avv.
Mauro    Vallerga,    codice     fiscale     VLLMRA71L12I480V     pec
mauro.vallerga@ordineavvgenova.it  giusta  procura  a  margine  della
comparsa di risposta, ed elettivamente domiciliato presso  lo  studio
di quest'ultimo sito in Genova, via Martin Piaggio n. 17, int. 1/A-E,
all'epoca   dei    fatti    responsabile    del    coordinamento    e
dell'organizzazione dei  servizi  di  polizia  penitenziaria  per  il
Vertice G8; 
        8)  G.  A.,  nato  a  ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Ardo  Arzeni,   codice   fiscale
RZNRDA63H29C621Y, pec ardo.arzeni@ordineavvgenova.it giusta procura a
margine della comparsa  di  risposta,  ed  elettivamente  domiciliato
presso il suo studio sito in Chiavari (GE), Galleria corso  Garibaldi
n. 21/5, all'epoca dei fatti Ispettore  superiore  della  Polizia  di
Stato, responsabile dell'Ufficio  trattazione  atti  per  la  squadra
mobile; 
        9) G. A. B.,  nato  a  ....  l'  ....,  all'epoca  dei  fatti
Ispettore della polizia penitenziaria, con la qualifica  ed  incarico
di responsabile della sicurezza delle persone detenute e  dell'ordine
nel sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto, non costituito; 
        10) I. A., nato a .... il ...., all'epoca dei fatti agente di
polizia penitenziaria, non costituito; 
        11) M.  D.,  nata  a  ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentata e difesa  dall'avv.  Isabella  Cocito,  codice  fiscale
CCTSLL57M50D969T,   pec   isabella.cocito@ordineavvgenova.it   giusta
procura  in  calce  della  comparsa  di  risposta,  ed  elettivamente
domiciliata presso il suo studio sito in Genova, corso  A.  Saffi  n.
3/2, all'epoca dei fatti Ispettore superiore della Polizia di  Stato,
comandante la squadra addetta al servizio di  vigilanza  delle  celle
destinate a camere di sicurezza del sito penitenziario provvisorio di
Bolzaneto; 
        12) M. D., nata a .... il ...., all'epoca  dei  fatti  agente
della Polizia di Stato, non costituita; 
        13) M.  M.,  nato  a  ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentato e difeso, giusta procura  in  calce  alla  comparsa  di
risposta,    dall'avv.    Emanuela    Mazzola,     codice     fiscale
MZZMNL66A50F937B,   pec   emanuelamazzola@ordineavvocatiroma.org   ed
elettivamente domiciliata presso il suo  studio  sito  in  Roma,  via
Tacito n. 50, all'epoca dei fatti assistente di polizia penitenziaria
addetto al servizio matricola del sito penitenziario  provvisorio  di
Bolzaneto; 
        14) N.  E.,  nato  a  ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentato e difeso dall'avv. Gian Mario Solinas,  codice  fiscale
SLNGMR74H29G203H, pec avv.gianmario.solinas@pec.it giusta procura  in
calce alla comparsa di risposta, ed elettivamente domiciliato  presso
il suo studio sito in Sassari, via Civitavecchia n. 14, all'epoca dei
fatti vice sovrintendente della  polizia  penitenziaria,  addetto  al
servizio matricola del sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        15) P.  G.,  nato  a  ....  l'  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentato e difeso, dagli avvocati Nicola  Pepe,  codice  fiscale
PPENCL75L28G148C,  pec  nicola.pepe@avvocatiperugiapec.it  e  Michele
Maria    Gambini,    codice     fiscale     GMBMHL85H15A475V,     pec
michele.gambini@avvocatiperugiapec.it giusta procura a margine  della
comparsa di risposta, ed elettivamente domiciliato presso  lo  studio
dell'avv.  Simona   Ferro   codice   fiscale   FRRSMN69L68D969J   pec
simona.ferro@ordineavvgenova.it all'epoca dei fatti sovrintendente di
polizia  penitenziari  in  servizio  presso  il  sito   penitenziario
provvisorio di Genova Bolzaneto; 
        16) P.  B.,  nato  a  ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresento e difeso dagli avvocati Salvatore Orefice, codice fiscale
RFCSVT66P18G3888T,    e    Stefano    Bertuzzi,    codice     fiscale
BRTSFN72S03H501D, pec  stefanobertuzzi@ordineavvocatiroma.org  giusta
procura in calce alla comparsa  di  risposta,  presso  lo  studio  di
quest'ultimo sito in Roma, piazza Attilio Friggeri n.  13,  all'epoca
dei fatti capitano del disciolto Corpo degli agenti di custodia,  con
funzioni di responsabile e  comandante  del  personale  del  Servizio
centrale traduzioni della polizia penitenziaria per il Vertice G8 nel
sito penitenziario di Bolzaneto; 
    17)  P.  A.,  nato  a  ....  il  ....,   codice   fiscale   ....,
rappresentato e difeso dall'avv.  Beatrice  Rinaudo,  codice  fiscale
RNDBRC75D49L219B, pec avvbrinaudo@pec.studiolegalerinaudo.com  giusta
procura in calce alla comparsa di risposta, all'epoca dei fatti  Vice
questore aggiunto della Polizia di Stato (vice comandante della DIGOS
della questura di Genova), funzionario di grado piu' elevato presente
nel sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        18) P. M. L.,  nato  a  ....  l'  ...., all'epoca  dei  fatti
assistente capo della Polizia di Stato, non costituito; 
    19)  P.  A.,  nata  a  ....,  il  ....,  codice   fiscale   ....,
rappresentata e  difesa  dall'avv.  Umberto  Pruzzo,  codice  fiscale
PRZMRT67S23A182I,   pec   umberto.pruzzo@dordineavvgenova.it   giusta
procura a  margine  della  comparsa  di  risposta,  ed  elettivamente
domiciliata presso il suo studio sito in Genova via XX  Settembre  n.
20/5, all'epoca dei fatti commissario Capo della  Polizia  di  Stato,
responsabile dell'Ufficio trattazione atti della Polizia di Stato nel
sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        20)  S.  A.,  nato  a  ....  il  ....  codice  fiscale  ....,
rappresentato e difeso, giusta procura  in  calce  alla  comparsa  di
risposta, dall'avv. Tommaso Paparo codice  fiscale  PPRTMS72C17C352M,
pec.    tommasopaparo@ordineavvocatiroma.org     ed     elettivamente
domiciliato presso lo studio dell'avv. Giovanni Gerbi sito in Genova,
via Roma n. 11, all'epoca dei fatti coordinatore  dell'organizzazione
dell'operativita'   e   del   controllo   su   tutte   le   attivita'
dell'Amministrazione penitenziaria in occasione del G8 di Genova; 
        21) S. C. M., nato a .... il ....,  rappresentato  e  difeso,
giusta  procura   in   atti,   dagli   avv.   Nunzio   Pinelli,   pec
pinellischifani@pecpinellischifani.com  e   Rosario   Vento,   codice
fiscale    VNTRSR68R31G273M,    pec    rosariovento@pecavvpa.it    ed
elettivamente domiciliato presso lo studio di  quest'ultimo  sito  in
Palermo via Messina n. 7/d,  all'epoca  dei  fatti  Assistente  della
polizia  penitenziaria  addetto  al  servizio  matricola   del   sito
penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        22) S.  S.,  nata  a  ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentata   e   difesa   dagli   avv.    Dario    Imparato    pec
avvimparato@pecstudiolegaleonofriimparato.it  e  Laura  Guercio,  pec
lauraguercio@ordineavvocatiroma.org  giusta  procura  in   atti,   ed
elettivamente domiciliata presso lo studio di  quest'ultima  sito  in
Genova, via Brigate Bisagno n. 6/1, all'epoca dei  fatti  medico  del
servizio sanitario penitenziario; 
        23) T. G. V., nato  a  ....  il  ....,  all'epoca  dei  fatti
Dirigente medico del servizio sanitario  penitenziario,  coordinatore
del  servizio  sanitario  nel  sito  penitenziario   provvisorio   di
Bolzaneto, non costituito; 
    24) T. F.  P.  nato  a  ....  il  ....,  rappresentato  e  difeso
dall'avv.  Cristiano  Dolce,  codice  fiscale  DLCCST67D08G273Z   pec
cristiano.dolce@legalmail.it giusta procura in calce alla comparsa di
risposta, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio  sito  in
Palermo, via G. La Farina n. 3, all'epoca dei  fatti  Ispettore  Capo
della polizia penitenziaria responsabile del servizio  matricola  del
sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        25) T. M. ..., nato a ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Ardo  Arzeni,   codice   fiscale
RZNRDA63H29C621Y, pec ardo.arzeni@ordineavvgenovai.t giusta procura a
margine della comparsa  di  risposta,  ed  elettivamente  domiciliato
presso il suo studio sito in Chiavari (GE), Galleria corso  Garibaldi
n. 21/5, all'epoca dei fatti ispettore della Polizia di Stato addetto
al servizio di vigilanza delle celle destinate a camere di  sicurezza
del sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
        26) U.  P.,  nato  a  ....  il  ....,  codice  fiscale  ....,
rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Ardo  Arzeni,   codice   fiscale
RZNRDA63H29C621Y, pec ardo.arzeni@ordineavvgenova.it giusta procura a
margine della comparsa  di  risposta,  ed  elettivamente  domiciliato
presso il suo studio sito in Chiavari (GE), Galleria corso  Garibaldi
n. 21/5, all'epoca dei fatti ispettore della Polizia di Stato addetto
al servizio di vigilanza delle celle destinate a camere di  sicurezza
del sito penitenziario provvisorio di Bolzaneto; 
    27)  Z.  M.,  nata  a  ....  il  ....,   codice   fiscale   ....,
rappresentata e difesa dall'avv. Gianfranco  Gesino,  codice  fiscale
GSNGFR75M21D969A,  e  dall'avv.  Mania   Crucioli,   codice   fiscale
CRCMTT76E03D969G,  pec  mattia.crucioli@ordineavvgenova.it  all'epoca
dei fatti medico del Servizio sanitario penitenziario. 
    Visto l'atto introduttivo del giudizio; 
    Visti gli atti e i documenti di causa; 
    Uditi, nella pubblica udienza  dell'8  marzo  2017:  il  relatore
dott. Paolo Cominelli; il Pubblico Ministero nella persona del V.P.G.
dott. Gabriele Vinciguerra; l'avv. Alessandro Ticli,  per  A.  e,  su
delega. dei rispettivi difensori, per  S.  C.  e  T.;  l'avv.  Simona
Ferro, su delga dei difensori, per P.; l'avv. Gian Mario Solinas  per
N.; l'avv. Emanuela Mazzola per M. e, su delega  del  difensore,  per
A.; agli avvocati Salvatore Orefice e Stefano Bertuzzi per C.  e  P.;
l'avv. Ardo Arzeni per T., A., G. e U .; l'avv.  Tommaso  Paparo  per
S.; gli avvocati Ennio Pischedda e  Mauro  Vallerga  per  D.;  l'avv.
Isabella Cocito per M.; l'avv. Beatrice Rinaudo per P.; l'avv. Mattia
Crucioli per Z. e, su delega del  difensore,  per  P.;  l'avv.  Laura
Guercio per S.; 
    Vista la sentenza non definitiva in data odierna  con  la  quale,
dopo aver respinto tutte  le  eccezioni  preliminari  proposte  dalle
parti e dichiarata inammissibile la pretesa azionata nei confronti di
A. B. per carenza di interesse ad agire, e' stata decisa  la  domanda
relativamente al danno patrimoniale, consistente nel pagamento  delle
provvisionali alle parti civili e nelle spese legali; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Con atto di citazione in data 12 maggio 2016,  il  Procuratore
regionale per la Liguria conveniva in giudizio i nominati in epigrafe
ed A.  B.  chiedendone  la  condanna  al  complessivo  importo  di  €
7.395.422,21  per  il  risarcimento  del  danno  subito  dallo  Stato
(Ministero dell'interno,  della  difesa  e  della  giustizia,  e,  in
particolare,  del  Corpo  della  Polizia  di  Stato,  dell'Arma   dei
carabinieri  e  dell'amministrazione  penitenziaria)  a  causa  delle
provvisionali e del rimborso delle spese legali statuite dal  giudice
penale all'esito del procedimento penale che li aveva visti coinvolti
ed all'importo complessivo di € 5.000.000  per  il  risarcimento  del
danno all'immagine  subito  sempre  dallo  Stato  in  dipendenza  dei
medesimi fatti oggetto del processo penale. 
    2. Il danno contestato e' conseguente al processo penale  che  si
e' celebrato  per  fatti  accaduti  a  Genova  nel  luglio  2001,  in
occasione del vertice fra i Capi  di  Stato  degli  otto  Paesi  piu'
industrializzati del mondo, meglio  noto  come  «G8»,  nella  caserma
«Nino Bixio» della Polizia di Stato, sita a Bolzaneto, ed individuata
quale sito penitenziario provvisorio per la  presa  in  carico  degli
arrestati da parte dell'Amministrazione penitenziaria. 
    Complesse indagini  svolte  dalla  Procura  della  Repubblica  di
Genova hanno accertato che le forze dell'ordine  (Polizia  di  Stato,
polizia penitenziaria e Arma  dei  carabinieri)  inflissero  violenze
fisiche e  psicologiche  nei  confronti  di  oltre  duecentocinquanta
persone ivi detenute, in quanto fermate o arrestate,  consistenti  in
trattamenti inumani e degradanti. 
    Non esistendo nell'ordinamento  italiano  il  reato  di  tortura,
furono formulati capi d'imputazione per i reati di  abuso  d'ufficio,
abuso di autorita' contro arrestati  o  detenuti,  violenza  privata,
percosse, lesione personale, ingiuria, minaccia, falso  ideologico  e
materiale, omissione di referto e  danneggiamento,  delitti  a  vario
titolo continuati, aggravati ed in concorso. Nel corso  del  giudizio
penale sono state emesse la sentenza  del  Tribunale  di  Genova,  n.
3119/2008, la sentenza della Corte d'appello di Genova, n.  678/2010,
e infine la sentenza della Corte di  cassazione  n.  37088/2013.  Dei
convenuti, solo otto hanno subito condanna penale definitiva: A.  G.,
M. M., S. C. M. e S. S. per falsita' ideologica commessa dal pubblico
ufficiale in atti pubblici; A. M., T. M.,  e  U.  P.,  per  abuso  di
autorita'  contro  arrestati  o  detenuti;  P.  M.  L.,  per  lesioni
personali. Tutti gli  altri  sono  stati  condannati  definitivamente
soltanto agli effetti civili, essendo intervenuta la prescrizione del
reato, ad eccezione di D. O., assolto perche' il fatto non  sussiste,
e di S. A., per il quale il GIP del Tribunale di Genova con ordinanza
del 24 gennaio 2007 ha disposto l'archiviazione. 
    Questi ultimi due sono stati citati nel presente giudizio solo in
via sussidiaria per colpa grave,  consistente  nell'omesso  esercizio
dei propri poteri di controllo e/o vigilanza. 
    3. Con sentenza parziale in pari data il Collegio, ha  estromesso
dal giudizio A. B. per  avvenuto  integrale  risarcimento  del  danno
contestato e si e' pronunziato, dopo  averlo  rideterminato  in  base
all'attualita', soltanto sul danno patrimoniale. 
    Relativamente al danno all'immagine, determinato  equitativamente
in € 5.000.000, la Procura  regionale,  consapevole  che  l'esercizio
della predetta azione sarebbe precluso dalla  disposizione  contenuta
nell'art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n.  78,
convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102  (c.d.
«Lodo Bernardo»), ne eccepisce  l'incostituzionalita'  per  contrasto
con l'art. 3 della Costituzione, sotto il  profilo  della  violazione
dei principi di uguaglianza e  di  ragionevolezza  delle  scelte  del
legislatore, e dell'art. 97, secondo comma, Cost., sotto  il  profilo
della violazione del principio di buona  amministrazione,  in  quanto
limita  la  risarcibilita'  del  danno  all'immagine  della  pubblica
amministrazione al pregiudizio scaturente da determinate  fattispecie
di reato e, di conseguenza, non ammette il risarcimento nel  caso  di
reati diversi (eventualmente  ugualmente  gravi  o  addirittura  piu'
gravi) e nel caso di comportamenti gravemente colposi, fermo restando
il limite della soglia minima di gravita' della lesione  (individuato
dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 26972 del 2008). 
    4.  Per  quanto  riguarda  l'importo   contestato   il   Pubblico
ministero, pur ribadendo  il  vincolo  della  solidarieta'  in  forza
dell'elemento soggettivo del dolo,  ai  fini  interni  attribuisce  a
ciascun convenuto una quota di danno, mentre a D. O. e  S.  A.  viene
contestato, in via sussidiaria la meta' del danno all'immagine subito
dall'Amministrazione  penitenziaria,  che,   decurtato   dell'importo
risarcito da A., ammonta ad € 1.548.227,90 ciascuno. 
    5. Si sono costituiti in giudizio, A. G., A. M., C. E., D. O. N.,
G. A., M. D., M. M., N. E., P. G., P. B., P. A., P. A., S. A., S.  C.
M., S. S., T. F. P., T. M., U. P. e Z. M., G. A. B. ha presentato una
memoria personale, mentre non si sono costituiti A. A., B. G., C. D.,
I. A., M. D., P. M. L. e T. G. V. 
    Tutti, oltre ad alcune eccezioni di rito  ed  alle  contestazioni
riferite al danno  patrimoniale,  gia'  esaminate  e  respinte  nella
sentenza parziale, eccepiscono l'inammissibilita' della  domanda  per
il  risarcimento  del  danno  all'immagine  e  l'infondatezza  e  non
rilevanza  della  questione  di  costituzionalita'  prospettata   dal
Pubblico ministero. 
    Alcuni convenuti hanno eccepito che in caso di accoglimento della
prospettata questione di legittimita'  costituzionale  da  parte  del
giudice  delle  leggi,  l'azione  per  il  risarcimento   del   danno
all'immagine sarebbe irrimediabilmente prescritta perche', eliminando
la pregiudizialita' penale, sarebbero trascorsi piu' di  cinque  anni
dal verificarsi dei fatti. 
    7.  All'odierna   udienza,   per   quanto   riguarda   il   danno
all'immagine, il Pubblico ministero ha  insistito  nella  prospettata
questione  di  legittimita'  costituzionale  e  si  e'  rimesso  alla
decisione che sara' assunta dalla  Corte  costituzionale  e  tutti  i
difensori si sono richiamati alle conclusioni scritte. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.1. Rilevanza della questione.  La  domanda  relativa  al  danno
all'immagine formulata nell'atto introduttivo del  giudizio  dovrebbe
essere dichiarata inammissibile in base all'art.  17,  comma  30-ter,
secondo periodo del decreto-legge n.  78  del  2009,  convertito  con
modifiche dalla legge n. 102 del 2009, a sua volta  modificata  dalla
legge n. 141 del 2009 (c.d. «Lodo Bernardo»), il  quale  dispone  che
«Le  procure  della  Corte  dei  conti  esercitano  l'azione  per  il
risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti
dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97». Il richiamato  art.  7
della legge n. 97 del 2001, a sua volta, ai fini della  delimitazione
dell'ambito applicativo dell'azione risarcitoria, fa riferimento alle
sentenze irrevocabili  di  condanna  pronunciate  nei  confronti  dei
dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici  ovvero  di  enti  a
prevalente partecipazione pubblica per i delitti contro  la  pubblica
amministrazione («i delitti di cui al capo I del titolo II del  libro
secondo del codice penale»). 
    Nella fattispecie non vi e' stata  alcuna  sentenza  di  condanna
passata in giudicato, per uno dei delitti previsti dal citato art. 7,
giacche' per la maggior parte dei convenuti il procedimento penale si
e' concluso con la dichiarazione di prescrizione e per  un  convenuto
(S.) non e' nemmeno iniziato, essendo stata disposta  l'archiviazione
dal GUP. 
    La rilevanza della questione e' suffragata dal  fatto  che,  come
esposto in narrativa, la stessa Procura  regionale,  consapevole  che
l'esercizio dell'azione sarebbe precluso dalla suddetta disposizione,
ne eccepisce l'incostituzionalita' per contrasto con gli articoli 3 e
97  della  Costituzione  ed  un  consistente  numero  di   convenuti,
ritenendo la prospettata questione di costituzionalita' irrilevante e
manifestamente    infondata,    chiedono    la    declaratoria     di
inammissibilita' (improcedibilita' secondo  altri,  nullita'  secondo
altri ancora) della domanda relativa al danno all'immagine. 
    1.2. Incidenza del codice di giustizia contabile sulla rilevanza.
Com'e' noto questa sezione, con ordinanza n. 12 del 19  aprile  2016,
emessa in un giudizio  relativo  ad  altri  fatti,  ha  ritenuto  non
manifestamente   infondata   analoga   questione   di    legittimita'
costituzionale, e nelle more della decisione del presente giudizio il
Giudice delle leggi ha emesso l'ordinanza n. 145/2017, con  la  quale
ha restituito gli atti per una nuova valutazione della  questione  in
base alle intervenute modifiche legislative, tra le  quali  l'entrata
in vigore del codice della giustizia contabile. 
    Osserva il Collegio che l'art. 7 della legge n. 97 del  2001  del
cd Lodo Bernardo  («Le  procure  della  Corte  dei  conti  esercitano
l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli  casi  e
nei modi previsti dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001,  n.  97»  e'
stato abrogato, «a decorrere dalla data  di  entrata  in  vigore  del
codice», dall'art. 4, comma 1,  lettera  g)  dell'allegato  3  (Norme
transitorie ed abrogazioni) al decreto legislativo 26 agosto 2016, n.
174.  Secondo  la  giurisprudenza,  (il  richiamo,  adesso,  dovrebbe
ritenersi fatto all'art. 51, comma 7 c.g.c)  in  virtu'  del  secondo
comma del predetto art. 4, il quale prevede che «Quando  disposizioni
vigenti richiamano disposizioni abrogate dal comma 1, il  riferimento
agli istituti  previsti  da  queste  ultime  si  intende  operato  ai
corrispondenti istituti disciplinati nel presente codice». 
    Come si desume dal semplice raffronto letterale, l'abrogato  art.
7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 e l'art. 51  comma  7  del  c.g.c.
sono  praticamente  identici  ad  eccezione  della  frase   «indicati
nell'art. 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti
nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale» che  e'
stata sostituita con la frase «delle pubbliche amministrazioni di cui
all'art. l, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo  2001,  n.  165,
nonche' degli organismi e degli  enti  da  esse  controllati,  per  i
delitti commessi a danno delle stesse». 
    Dal che consegue che il testo attualmente vigente  dell'art.  17,
comma 30-ter, secondo periodo del decreto-legge n. 78 del  2009,  per
la parte che qui interessa e' il seguente: «Le  procure  della  Corte
dei  conti  esercitano  l'azione  per  il  risarcimento   del   danno
all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 51  comma  7
del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174. A tale  ultimo  fine,
il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'art.  1
della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino alla  conclusione
del  procedimento  penale».  Cio'  comporta  che  l'azione   per   il
risarcimento  del  danno  all'immagine  puo'  essere  esercitata   in
presenza di una sentenza di condanna per un delitto commesso a  danno
di una pubblica amministrazione ed in tal senso si e' pronunziata  la
giurisprudenza contabile (sezione Emilia 73/2017,  106/2017,  sezione
Lombardia 201/2016, 113/2017). 
    Osserva il Collegio che la nuova disposizione, in disparte la sua
esatta portata innovativa, non  puo'  essere  applicata  al  presente
giudizio  in  base  all'art.  2,  comma  1,  dell'allegato  3  c.g.c.
Quest'ultima norma prevede che ai giudizi in corso si applicano  solo
le disposizioni della parte Il, titolo II,  capi  III,  IV  e  V  del
codice di giustizia contabile, mentre l'art. 51 comma 7 e'  contenuto
nella parte II, titolo I, capo I. 
    Poiche' il presente giudizio e'  stato  instaurato  con  atto  di
citazione notificato prima dell'entrata in vigore  del  codice  della
giustizia contabile (e precisamente nel giugno  del  2016  mentre  il
c.g.c. e' entrato in vigore  il  successivo  mese  di  ottobre  dello
stesso anno), alla fattispecie e' applicabile la vecchia  disciplina,
con conseguente rilevanza della questione  di  costituzionalita'  per
tutti i convenuti, atteso che non vi  e'  stata  alcuna  sentenza  di
condanna passata  in  giudicato,  per  uno  dei  «delitti  contro  la
pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del  libro
secondo del codice penale». 
    Peraltro, ove dovesse ritenersi applicabile la  nuova  normativa,
la questione rimarrebbe rilevante per tutti coloro  per  i  quali  in
sede penale e' stata dichiarata la prescrizione e per i convenuti  in
via sussidiaria. 
    1.3. Prescrizione dell'azione e rilevanza della questione. Alcuni
convenuti  hanno  eccepito  che,  in  caso  di   accoglimento   della
prospettata questione di legittimita'  costituzionale  da  parte  del
Giudice  delle  leggi,  l'azione  per  il  risarcimento   del   danno
all'immagine sarebbe irrimediabilmente prescritta perche', eliminando
la pregiudizialita' penale, sarebbero trascorsi piu' di  cinque  anni
dal verificarsi dei fatti. 
    Ritiene il Collegio di  dover  confutare  sin  da  adesso  questa
eccezione per dissolvere qualsiasi eventuale dubbio  sulla  rilevanza
della questione.  L'eccezione  e'  palesemente  infondata.  Ai  sensi
dell'art. 136, primo  comma,  della  Costituzione  «Quando  la  Corte
dichiara l'illegittimita' costituzionale di una norma di legge  o  di
atto avente forza di legge, la norma cessa  di  avere  efficacia  dal
giorno  successivo  alla  pubblicazione  della   decisione»   sicche'
l'eventuale   accoglimento   della    questione    di    legittimita'
costituzionale,  con   conseguente   abrogazione   della   causa   di
sospensione della prescrizione previsto dalla norma impugnata (A tale
ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2
dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino  alla
conclusione del procedimento penale) non puo' retroagire. Nel caso in
esame il dies a quo della  prescrizione  va  individuato  nella  data
della richiesta di rinvio a giudizio avvenuta in data 12 maggio 2004,
con contestuale sospensione  del  termine  prescrizionale  sino  alla
definizione del giudizio avvenuto con  la  sentenza  della  Corte  di
cassazione depositata il  10  settembre  2013,  pertanto  l'esercizio
dell'azione, avvenuto con atto di citazione notificato a giugno 2016,
e' tempestivo, essendo intervenuto entro il prescritto quinquennio. 
    2. Impossibilita' di una diversa interpretazione. La  consolidata
giurisprudenza della Corte costituzionale ritiene indispensabile  che
il giudice a quo prospetti l'impossibilita'  di  una  interpretazione
della   norma   conforme   a   costituzione    (cd    interpretazione
costituzionalmente orientata) oppure che lamenti l'esistenza  di  una
costante lettura della disposizione  denunziata  in  senso  contrario
alla Costituzione (cd diritto vivente). 
    Osserva il Collegio che l'art. 17, comma 30-ter, secondo  periodo
del decreto-legge n. 78 del  2009,  convertito  con  modifiche  dalla
legge n. 102 del 2009 e' stato scrutinato diverse volte  dal  Giudice
delle leggi che lo ha ritenuto conforme a costituzione (sentenza  355
del 2010, nonche' ordinanze  219,  220,  221  e  286  del  2011).  La
successiva giurisprudenza della Corte dei conti, tuttavia, non si  e'
uniformata e si sono sviluppati due  orientamenti  giurisprudenziali,
uno conforme all'interpretazione della  Corte  costituzionale  ed  un
altro di segno opposto, secondo il quale era ammessa  l'azionabilita'
del danno all'immagine anche in presenza di reati diversi  da  quelli
contro la pubblica amministrazione (ex multis: sezione Liguria n. 107
in data 25 giugno 2013 e n. 212 in data 6 dicembre 2013 e, da ultimo,
sezione Prima giurisdizionale centrale 379/2014/A in  data  11  marzo
2014 e n. 522/2014/A in data 3 aprile 2014). 
    Sul  contrasto  giurisprudenziale  sono  intervenute  le  Sezioni
riunite della Corte dei conti che, con sentenza n.  8/2015/QM,  hanno
enunciato il seguente principio di diritto: «l'art. 17, comma 30-ter,
va inteso nel senso che le procure  della  Corte  dei  conti  possono
esercitare l'azione per il risarcimento del danno  all'immagine  solo
per i delitti di cui al capo I del titolo II del  libro  secondo  del
codice penale». L'interpretazione contenuta nell'enunciato  principio
di diritto, costantemente seguita dalla giurisprudenza, si  configura
come   vero   e   proprio   diritto   vivente   e   cio'   determina,
l'impossibilita' di ricercare una interpretazione  costituzionalmente
orientata della norma. 
    3. Le precedenti pronunce della Corte costituzionale. Come  sopra
detto la Corte costituzionale ha affermato la costituzionalita' della
disposizione  in  esame:  in  particolare  la  sentenza  355/2010  ha
affermato  che   «la   particolare   struttura   e   funzione   della
responsabilita' amministrativa,  unitamente  alla  valutazione  della
specifica natura del  bene  giuridico  protetto  dalle  norme  penali
richiamate  dalla  disposizione  impugnata,  rende  non   palesemente
arbitraria la  scelta  con  cui  e'  stato  delimitato  il  campo  di
applicazione  dell'azione  risarcitoria  esercitatile  dalla  Procura
operante presso le sezioni della Corte dei conti»  (punto  9,  ultimo
periodo della parte in diritto della sentenza 355/2010). 
    Il contenuto della predetta sentenza e' stato confermato da altre
pronunce. In particolare con ordinanza n. 219/2011 e' stato precisato
che «una volta rinvenuta  una  giustificazione  alla  previsione  che
impone la sussistenza di una sentenza di condanna per uno  dei  reati
sopra indicati, e' ragionevole che il legislatore abbia richiesto che
tale sentenza acquisisca il  crisma  della  definitivita'  prima  che
inizi  il procedimento  per  l'accertamento   della   responsabilita'
amministrativa     derivante     dalla     lesione      dell'immagine
dell'amministrazione». 
    L'ordinanza  n.  221/2011  ha  affermato  che   «la   valutazione
contestuale della peculiarita' della responsabilita' amministrativa e
della natura del soggetto  tutelato  non  comporta  alcun  vulnus  al
principio posto dall'art. 2 Cost.» 
    L'ordinanza  n.  220/2011  ha  ritenuto  infondata   la   censura
prospettata dal  giudice  a  quo  che  riteneva  tale  disciplina  in
contrasto con l'art. 3  Cost.,  in  quanto  esclude  dal  suo  ambito
applicativo «fattispecie delittuose ben piu' gravi (anche  a  livello
di allarme sociale o comunque di incidenza lesiva sul prestigio della
pubblica  amministrazione)»,  ovvero  «fattispecie  anche  prive   di
rilievo penale che siano gravemente  pregiudizievoli  per  l'immagine
della p.a.»,  richiamando  integralmente  la  sentenza  n.  355/2010.
Inoltre ha ritenuto costituzionalmente legittima la previsione  della
nullita' degli atti istruttori e processuali compiuti, salvo il  caso
in cui sia stata gia' pronunciata sentenza anche non definitiva  alla
data di entrata in vigore  della  legge  di  conversione.  Sul  punto
l'ordinanza  n.  286  ha  specificato  che  una  volta  ritenuta   la
legittimita' costituzionale  della  scelta  operata  dal  legislatore
«deve escludersi ogni vulnus alle  conseguenti  modalita'  di  tutela
processuale». 
    Il  Collegio  ritiene  opportuno  evidenziare   alcuni   principi
affermati nella citata sentenza n. 355/2010, che possono essere posti
a base delle successive argomentazioni. 
    In primo luogo la Corte costituzionale ha affermato  che  con  la
norma in questione  il  legislatore  non  ha  «inteso  prevedere  una
limitazione  della  giurisdizione  contabile  a   favore   di   altra
giurisdizione,   e   segnatamente   di   quella   ordinaria,   bensi'
circoscrivere oggettivamente i casi in cui e'  possibile,  sul  piano
sostanziale e processuale, chiedere  il  risarcimento  del  danno  in
presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione  imputabile
a un dipendente di questa. In altri termini, non e' condivisibile una
interpretazione  della  normativa  censurata   nel   senso   che   il
legislatore abbia voluto prevedere una responsabilita' nei  confronti
dell'amministrazione diversamente modulata a  seconda  dell'autorita'
giudiziaria  competente  a  pronunciarsi  in  ordine   alla   domanda
risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata, invece,
nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente  previste  di
responsabilita'  per  danni  all'immagine   dell'ente   pubblico   di
appartenenza,  non  e'  configurabile   siffatto   tipo   di   tutela
risarcitoria» (punto 6 della parte in diritto). 
    Questo principio e' stato recepito dalla Corte di  cassazione  la
quale ha affermato  che  la  norma  in  questione  «nel  disciplinare
l'esercizio, da parte delle procure regionali della Corte dei  conti,
dell'azione  per  il  risarcimento  del  danno  all'immagine   subito
dall'Amministrazione - non impone una limitazione della giurisdizione
contabile a favore di altra giurisdizione e  segnatamente  di  quella
ordinaria per la responsabilita'  civile,  ma  ha  solo  circoscritto
oggettivamente i casi in cui e' possibile, sul  piano  sostanziale  e
processuale, chiedere  il  risarcimento  del  danno  in  presenza  di
lesione  dell'immagine  dell'Amministrazione  imputabile  ad  un  suo
dipendente» (Cass. SU 14831/11, 9188/2012 e 20728/2012). 
    In secondo luogo e' stato chiarito che  la  tutela  dell'immagine
della pubblica amministrazione trova il suo fondamento nell'art.  97,
secondo comma, della Costituzione. In particolare la citata  sentenza
afferma che  «L'art.  97  Cost.  impone  la  costruzione,  sul  piano
legislativo, di un modello di  pubblica  amministrazione  che  ispiri
costantemente la sua azione al  rispetto  dei  principi  generali  di
efficacia, efficienza  e  imparzialita'.  Si  tratta  di  regole  che
conformano, all'«interno», le modalita' di svolgimento dell'attivita'
amministrativa. E' indubbio come sussista una stretta connessione tra
la tutela dell'immagine della pubblica amministrazione e il  rispetto
del suddetto precetto costituzionale. Puo'  ritenersi,  infatti,  che
l'autorita'  pubblica  sia  titolare  di   un   diritto   «personale»
rappresentato dall'immagine che i consociati abbiano delle  modalita'
di azione conforme ai canoni del buon andamento e dell'imparzialita'.
Tale relazione tendenzialmente  esistente  tra  le  regole  "interne"
improntate al rispetto dei predetti canoni, e la proiezione "esterna"
di esse, giustifica il riconoscimento, in  capo  all'amministrazione,
di una tutela risarcitoria» (punto 16 della parte  in  diritto).  Del
resto,   anche   prima   la   giurisprudenza   costituzionale   aveva
riconosciuto che «Alla luce  del  principio  di  buon  andamento  dei
pubblici uffici e del dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni
pubbliche di "adempierle con disciplina ed onore"  (artt.  97  e  54,
secondo comma Cost.)», sussiste «l'interesse pubblico di garantire la
credibilita' e la fiducia di cui l'amministrazione deve godere presso
i cittadini (v. sentenze  n.  206  del  1999  e  n.  145  del  2002):
interesse leso dal discredito che la condanna, anche  solo  di  primo
grado,  puo'  recare  all'immagine  del  corretto  funzionamento  dei
pubblici uffici» e che «e esigenze di trasparenza e  di  credibilita'
della  pubblica  amministrazione  sono  direttamente   correlate   al
principio costituzionale di buon andamento  degli  uffici»  (sentenza
172/2005 punto 5). 
    Per ultimo la citata sentenza  355/2010  ha  rinvenuto  la  ratio
della disposizione nella «esigenza di limitare ambiti,  ritenuti  dal
legislatore troppo ampi (come, d'altronde, dimostrano il numero delle
ordinanze  di  remissione  e  -  soprattutto  -  la  tipologia  delle
contestazioni), di responsabilita' dei pubblici  dipendenti  cui  sia
imputabile la lesione del diritto all'immagine delle  amministrazioni
di rispettiva appartenenza» ed  ha  ritenuto  «palese  l'intento  del
legislatore  di  intervenire  in  questa  materia  sulla  base  della
considerazione secondo cui l'ampliamento dei casi di  responsabilita'
di tali soggetti, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo,
e' suscettibile di  determinare  un  rallentamento  nell'efficacia  e
tempestivita' dell'azione amministrativa  dei  pubblici  poteri,  per
effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare
in  coloro  ai  quali,  in  definitiva,  e'   demandato   l'esercizio
dell'attivita' amministrativa». In particolare e' stato precisato che
questa disposizione, unitamente ad altre contenute nella stesso  art.
17 del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito con  modifiche  dalla
legge n. 102 del 2009, perseguono lo scopo «di limitare ulteriormente
l'area  della  gravita'  della  colpa  del  dipendente   incorso   in
responsabilita',  proprio  all'evidente  scopo   di   consentire   un
esercizio dell'attivita'  di  amministrazione  della  cosa  pubblica,
oltre che piu' efficace ed efficiente, il piu'  possibile  scevro  da
appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente onerosi,  per
chi e' chiamato, appunto, a porla in essere» (punto 8 del diritto). 
    Cio' nonostante, il  Collegio  ritiene  di  dover  riproporre  la
questione di costituzionalita', essendo mutato il quadro normativo di
riferimento. 
    In ogni caso, va precisato che questo  giudicante  non  si  duole
dell'avvenuta regolamentazione delle  ipotesi  di  azionabilita'  del
danno all'immagine, decisione che rientra nella discrezionalita'  del
legislatore,  il  quale  puo'  ritenerla  utile  anche  per  impedire
eventuali  possibili  eccessi,  ma  ritiene  semplicemente   che   la
disciplina dettata sia irrazionale,  irragionevole  ed  illogica  con
conseguente violazione degli articoli 3, 97, secondo  comma,  e  103,
secondo comma, della Costituzione. 
    4. Il mutato quadro  normativo.  Oltre  alla  modifica  derivante
dall'introduzione del codice della giustizia contabile, illustrata al
punto 1.2., dopo l'emanazione della sentenza 355 sono  state  emanate
in materia di danno all'immagine le eseguenti disposizioni: 
        a) l'art. 1, comma 12, della legge 6 novembre 2012,  n.  190,
il  quale  stabilisce  che  «In  caso  di  commissione,   all'interno
dell'amministrazione,  di  un  reato  di  corruzione  accertato   con
sentenza passata in giudicato, il responsabile individuato  ai  sensi
del comma 7  del  presente  articolo  (cioe'  il  Responsabile  della
prevenzione della corruzione e della trasparenza) risponde  ai  sensi
dell'art. 21 del  decreto  legislativo  30  marzo  2001,  n.  165,  e
successive modificazioni, nonche' sul piano disciplinare,  oltre  che
per il danno erariale e all'immagine della pubblica  amministrazione,
salvo che provi tutte le seguenti circostanze (Omissis)»; 
        b) l'art. 46 del decreto legislativo 14  marzo  2013  n.  33,
come modificato dall'art. 37 del decreto legislativo 25 maggio  2016,
n. 97 stabilisce che «L'inadempimento degli obblighi di pubblicazione
previsti dalla normativa vigente e il rifiuto, il differimento  e  la
limitazione dell'accesso civico, al di fuori delle  ipotesi  previste
dall'art.  5-bis,  costituiscono  elemento   di   valutazione   della
responsabilita' dirigenziale, eventuale causa di responsabilita'  per
danno all'immagine dell'amministrazione»; 
        c) l'art. 55-quater comma 3-quater del decreto legislativo 30
marzo  2001,  n.  165,  come  modificato  per  ultimo   dal   decreto
legislativo 20 luglio 2017, n. 118, prevede che «nei casi di  cui  al
comma 3-bis, (che a sua volta prevede che nel caso di cui al comma 1,
lettera a) - e precisamente  falsa  attestazione  della  presenza  in
servizio, mediante l'alterazione dei  sistemi  di  rilevamento  della
presenza o con altre modalita'  fraudolente,  ovvero  giustificazione
dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa  o
che attesta falsamente uno stato di malattia - la falsa  attestazione
della presenza in servizio, accertata in  flagranza  ovvero  mediante
strumenti di sorveglianza o di registrazione degli  accessi  o  delle
presenze, determina l'immediata sospensione cautelare senza stipendio
del  dipendente,  che  va  adottata  entro  quarantotto   ore   dalla
conoscenza  dei  fatti)  la  denuncia  al  pubblico  ministero  e  la
segnalazione alla competente Procura regionale della Corte dei  conti
avvengono   entro   venti   giorni   dall'avvio   del    procedimento
disciplinare. La Procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i
presupposti, emette invito a dedurre per danno d'immagine  entro  tre
mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento. L'azione  di
responsabilita' e' esercitata, con le modalita' e nei termini di  cui
all'art. 5 del decreto-legge 15 novembre 1993,  n.  453,  convertito,
con modificazioni, dalla legge  14  gennaio  1994,  n.  19,  entro  i
centocinquanta giorni successivi alla denuncia, senza possibilita' di
proroga.  L'ammontare  del  danno   risarcibile   e'   rimesso   alla
valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla  rilevanza
del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna
non puo' essere inferiore a sei mensilita' dell'ultimo  stipendio  in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia»; 
        d) l'art. 55-quinquies comma 2  del  decreto  legislativo  30
marzo 2001, n 165,  il  quale,  nel  testo  modificato  dall'art.  16
comma 1 del decreto legislativo 25 maggio 2017, n.  75,  dispone  che
«nei casi di cui al comma 1 (il lavoratore dipendente di una pubblica
amministrazione  che  attesta  falsamente  la  propria  presenza   in
servizio, mediante l'alterazione dei  sistemi  di  rilevamento  della
presenza  o  con  altre  modalita'  fraudolente,  ovvero   giustifica
l'assenza dal servizio mediante una  certificazione  medica  falsa  o
falsamente attestante uno stato di malattia), il lavoratore, ferme la
responsabilita' penale e disciplinare  e  le  relative  sanzioni,  e'
obbligato  a  risarcire  il  danno  patrimoniale,  pari  al  compenso
corrisposto a titolo di retribuzione nei  periodi  per  i  quali  sia
accertata la mancata prestazione, nonche' il danno d'immagine di  cui
all'art. 55-quater, comma 3-quater». Si evidenzia sin da  adesso  che
nelle ipotesi sopra elencate l'azionabilita' del  danno  all'immagine
prescinde dalla commissione  di  un  qualsiasi  reato  da  parte  del
responsabile (lettere a e b), oppure dalla previa sentenza penale  di
condanna passata in giudicato (lettere c e d). 
    Va inoltre richiamata la sentenza 13 maggio  2014,  emessa  dalla
Corte europea per i diritti dell'uomo sul ric. n. 20148/09 -  Rigolio
c/  Italia,  nella  quale  e'  stato  escluso  che  il  giudizio   di
responsabilita'  contabile  per  danno  all'immagine   possa   essere
assimilato al processo penale, secondo  i  c.d.  Engel  criteria,  in
quanto finalizzato al risarcimento dell'amministrazione danneggiata e
a ristorare un pregiudizio dalla stessa patito, e non alla tutela  di
interessi generali. 
    In particolare, la Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali ha  ritenuto  che  la
qualificazione  amministrativa  della  responsabilita'  nascente  dal
pregiudizio all'immagine, la natura della violazione e  il  grado  di
severita' della  sanzione  inflitta  escludono  che  il  giudizio  di
responsabilita' debba soggiacere alle garanzie  del  processo  penale
sancite dall'art. 6, della Convenzione Europea dei diritti  dell'uomo
(paragrafi 36 e 46 della sentenza). 
    5. I fatti accertati. Al fine di rendere  piu'  comprensibili  le
doglianze  di  incostituzionalita'  il  Collegio  ritiene   opportuno
descrivere  sinteticamente  i   fatti   accertati   nel   corso   del
procedimento penale, rinviando per un eventuale approfondimento  alla
sentenza parziale emessa in data odierna. 
    Nella previsione  del  verificarsi  di  disordini  connessi  alle
manifestazioni di protesta preannunciate in relazione al cd. «Vertice
del G8» tenutosi a Genova nel  luglio  del  2001,  la  Caserma  «Nino
Bixio» di Bolzaneto fu individuata, quale sito provvisorio  destinato
ad ospitare parte dei prevedibili fermati ed arrestati. 
    L'indagine conoscitiva parlamentare  ha  accertato  che  nei  tre
giorni   interessati   a   Bolzaneto   sono    state    immatricolate
duecentoventisei persone, e che  si  sono  verificati  ritardi  nello
svolgimento delle operazioni di polizia giudiziaria.  Tra  la  serata
del 20 luglio e  il  23  luglio  sono  stati  commessi  innumerevoli,
ripetuti e continuati atti di violenza e vessazioni nei confronti  di
soggetti trattenuti a Bolzaneto. 
    Si e' trattato di maltrattamenti e abusi meramente gratuiti,  non
giustificati da nessuna circostanza, e privi di qualsiasi obiettiva e
ragionevole motivazione, che sono stati perpetrati nei  confronti  di
persone inermi  in  stato  di  detenzione.  Tra  le  vessazioni  piu'
frequenti vi e' stata l'imposizione  di  posizioni  vessatorie  fatte
mantenere per ore e ore (addirittura, in certi casi, per 10,  18,  20
ore e oltre) ed imposte anche a persone ferite o che si trovavano  in
stato di menomazione fisica. Le piu' ricorrenti posizioni  vessatorie
erano lo stazionamento in piedi, a gambe divaricate e braccia  alzate
diritte sopra la testa, con  il  viso  rivolto  al  muro,  ovvero  in
equilibrio sulle punte dei piedi o  su  una  gamba  sola,  oppure  in
ginocchio sempre con il viso rivolto alla parete, o restare  per  ore
con le mani strette dai  «laccetti»  di  plastica  che  fungevano  da
manette   oppure   la   cd   posizione   di   transito,   consistente
nell'obbligare gli arrestati  a  camminare  tenendo  la  testa  quasi
all'altezza delle  ginocchia  e  torcendo  contemporaneamente  uno  o
entrambe le braccia dietro la schiena). 
    Gli atti di  violenza  sono  consistiti  in  insulti  e  percosse
inflitti da appartenenti alle varie forze di polizia  presenti  nella
caserma  in  diverse  occasioni  ed  in  ogni  luogo:   durante   gli
assembramenti che si formavano all'arrivo dei  gruppi  di  arrestati,
oppure al passaggio nel corridoio della palazzina  che  avveniva  tra
due ali di agenti,  oppure  all'interno  delle  celle  e  persino  in
infermeria durante la visita medica. Vi e' stato anche lo spruzzo  di
sostanze  urticanti  o  irritanti  nelle  celle,  che   hanno   anche
comportato malori. Gli insulti erano di ogni tipo, da quelli a sfondo
sessuale, diretti in particolare alle donne,  a  quelli  razzisti,  a
quelli di contenuto politico; vi sono state minacce di  percosse,  di
stupro e, addirittura, di  morte,  costrizioni  a  pronunciare  frasi
lesive della propria dignita' personale, a sfilare lungo il corridoio
facendo il saluto romano e il  passo  dell'oca,  ad  ascoltare  frasi
antisemite ed  inneggianti  ai  regimi  fascista  e  nazista  e  alla
dittatura del generale Pinochet. 
    Le percosse  venivano  inferte  in  tutte  le  parti  del  corpo,
compresi genitali (con conseguenti lesioni in vari casi), con le mani
coperte da pesanti guanti di pelle nera e  con  i  manganelli,  senza
apparente motivo ovvero per costringere gli arrestati a mantenere  la
posizione  vessatoria  loro  imposta,  o  ancora  come   reazione   a
richieste, quali quelle di poter conferire con  un  magistrato  o  un
avvocato, di conoscere il motivo del fermo o dell'arresto o di essere
accompagnati in bagno. Spesso gli arrestati per evitare  il  transito
di andata e ritorno lungo il corridoio, con conseguenti percosse, non
chiedevano di essere accompagnati in  bagno  e  preferivano  urinarsi
addosso. Si citano, al solo fine di meglio illustrare la gravita' dei
fatti commessi, le percosse con pugni e calci nei confronti di L. D.,
cagionandogli fratture alle costole sinistre, il taglio  forzato  dei
capelli a E. T., le lesioni personali,  in  danno  di  L.  G.  L.  A.
colpito piu' volte durante la  perquisizione  in  infermeria,  mentre
aveva ancora le mani legate dai laccetti di plastica  e  senza  alcun
plausibile motivo, cagionandogli, in tal modo, una frattura  costale.
Ed ancora percosse e minacce a O. B., C. S. P., P. E., N. C., E.  T.,
sino ad arrivare ad episodi spregevoli quali quello commesso a  danno
di P. E. costretta con violenza a mettere la testa dentro la toilette
alla turca e a subire da altri  agenti  della  polizia  penitenziaria
pronunce di frasi ingiuriose con espliciti riferimenti sessuali. 
    Emblematici della gratuita' delle violenze sono i delitti  subiti
da A.  G.  L'assistente  della  Polizia  di  Stato  P.  M.  e'  stato
condannato, con sentenza passata in  giudicato,  per  il  delitto  di
lesioni perche', «afferrando con le  due  mani  le  dita  della  mano
sinistra di una  delle  persone  fermate,  A.  G.  ,  e  poi  tirando
violentemente le dita stesse in senso opposto in modo da divaricarle,
cagionava al citato A. G., lesioni personali (ferita  lacero  contusa
della lunghezza di cinque centimetri tra il  terzo  e  quarto  raggio
della  mano  sinistra  in  corrispondenza  delle  due   articolazioni
metacarpo-falangee), dalle quali derivava  una  malattia  guarita  in
cinquanta giorni». A., dopo la grave violenza subita,  viene  portato
in infermeria e la mano sanguinante gli viene suturata  senza  alcuna
anestesia: il dirigente medico del Servizio  sanitario  penitenziario
T. G., teneva  ferma  la  mano  mentre  il  medico  A.  A.  procedeva
materialmente alla  sutura.  Le  caratteristiche  della  ferita,  che
richiedeva il referto, rendevano evidente che non si era trattato  di
una semplice caduta dalle scale, come detto dal terrorizzato  A.  per
spiegare l'accaduto, tanto piu' che  a  Bolzaneto  c'erano  solo  tre
gradini: invece viene minacciato con la frase «se non stai  zitto  ti
diamo le altre». 
    I fatti in questione hanno avuto anche  riflessi  internazionali:
si pensi alle ripetute condanne da  parte  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo  che  ha  imposto  allo  Stato  italiano  ulteriori
risarcimenti per danni. Tra le altre si' citano le  sentenze  del  22
giugno e del 26 ottobre 2017, che hanno riguardato proprio i fatti di
Bolzaneto.  In  tali  pronunce,  la  Corte   europea   ha   duramente
stigmatizzato il comportamento delle  autorita'  italiane,  definendo
l'operato delle forze dell'ordine nei confronti degli arrestati quale
tortura, e affermando che lo Stato italiano non li ha protetti ne' ha
loro garantito giustizia. 
    Queste condanne hanno fatto si' che venisse introdotto nel nostro
ordinamento giuridico il delitto di tortura (legge 14 luglio 2017, n.
110, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 166 del 18 luglio 2017). 
    7. L'irragionevolezza della norma e  la  violazione  delle  norme
costituzionali (articoli 3, 97 e 103 Cost.). Osserva il collegio  che
la giurisprudenza costituzionale «ha desunto  dall'art.  3  Cost.  un
canone di "razionalita'" della legge svincolato da una  normativa  di
raffronto,     rintracciato     nell'"esigenza     di     conformita'
dell'ordinamento a valori di giustizia e di equita'" (sentenza n. 421
del  1991)  ed  a  criteri  di   coerenza   logica,   teleologica   e
storico-cronologica, che costituisce un presidio  contro  l'eventuale
manifesta irrazionalita' o iniquita' delle conseguenze  della  stessa
(sentenze n. 46 del 1993, n. 81 del 1992)» e che «Tale giudizio  deve
svolgersi "attraverso ponderazioni relative alla proporzionalita' dei
mezzi   prescelti   dal   legislatore   nella    sua    insindacabile
discrezionalita' rispetto alle esigenze  obiettive  da  soddisfare  o
alle finalita' che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze
e delle limitazioni concretamente sussistenti" (sentenza n. 1130  del
1988).  A  questo  scopo  puo'   essere   utilizzato   il   test   di
proporzionalita', insieme con quello di ragionevolezza, che "richiede
di valutare se la norma oggetto di scrutinio,  con  la  misura  e  le
modalita' di applicazione  stabilite,  sia  necessaria  e  idonea  al
conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto,  tra
piu'  misure  appropriate,  prescriva  quella  meno  restrittiva  dei
diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al
perseguimento di detti obiettivi" (Corte costituzionale  sentenze  n.
162/2014 punto 13 del diritto, n. 87/2012 punto 7 del diritto). 
    Cio' premesso, la sommaria descrizione dei  fatti  sopra  esposta
rende palese l'irragionevolezza della disciplina introdotta dal  Lodo
Bernardo. L'irrazionalita' della norma e', innanzi tutto,  intrinseca
e consiste nella previsione di limitare la perseguibilita' del  danno
all'immagine solo in presenza di determinati reati (i delitti  contro
la pubblica amministrazione previsti nel capo I  del  titolo  II  del
libro secondo del codice penale), escludendo  fattispecie  delittuose
ben piu' gravi sia a livello di  allarme  sociale  che  di  incidenza
lesiva sul prestigio della pubblica amministrazione. 
    Si prenda ad esempio  il  reato  previsto  dall'art.  323  codice
penale la cui commissione  autorizza  la  perseguibilita'  del  danno
all'immagine: l'abuso d'ufficio e' un delitto residuale  ("salvo  che
il fatto non costituisca un piu' grave reato")  e  la  giurisprudenza
della Cassazione, in  applicazione  della  regola  della  specialita'
prevista dall'art. 15 codice penale ha escluso il concorso formale di
tale reato con altri  piu'  gravi,  per  i  quali  opera  l'aggravate
prevista dall'art. 61, n. 9, codice penale ("avere commesso il  fatto
con abuso dei poteri, o con violazione  dei  doveri  inerenti  a  una
pubblica funzione o a un pubblico servizio"). In particolare e' stato
affermato che «il delitto di abuso di  ufficio  si  caratterizza  per
essere  un  reato   il   cui   oggetto   giuridico   va   individuato
nell'interesse a che la persona investita di una pubblica funzione  o
di un servizio pubblico, nel compimento di atti  o  di  comportamenti
relativi  al  proprio  servizio  o  funzione,  assicuri  il   normale
funzionamento dell'amministrazione, esercitando le  proprie  funzioni
nel  «rispetto  delle  norme  di  legge  o  di  regolamento»  con  la
conseguenza  che  e'  proprio  l'ingiustizia  dell'evento   danno   o
vantaggio  patrimoniale   - "intenzionalmente"   cagionato   mediante
violazione di norme  di  legge  o  di  regolamento  -  ad  attribuire
rilevanza penale alla condotta dell'agente. 
    Qualora, invece,  il  comportamento  del  pubblico  ufficiale  si
concretizzi nella violazione di una norma penale generale  diretta  a
sanzionare chiunque commetta il fatto da essa previsto (es. percosse,
lesioni, minacce, ingiuria), si configura unicamente tale ipotesi  di
reato, eventualmente aggravata dall'art.  61  codice  penale,  n.  9,
quando il fatto e' stato commesso anche con l'abuso dei poteri o  con
violazione dei doveri inerenti alla finzione pubblica esercitata. 
    In tal caso, infatti, l'evento  della  condotta  contra  ius  non
costituisce alcunche' di ulteriore rispetto alla  fattispecie  tipica
realizzata, e il "comportamento" di abuso e' assorbito ed esaurito in
quest'ultima fattispecie, che si pone come lex specialis  rispetto  a
quella di cui all'art. 323 codice penale» (Cass. n. 42801  del  2008,
n. 2974 del 2007, n. 49536 del 2003). 
    Lo  stesso  legislatore,  probabilmente  rendendosi  conto  della
eccessiva limitazione contenuta nel  Lodo  Bernardo,  con  il  codice
della giustizia contabile ha allargato la tipologia di  reati  per  i
quali  e'  ammissibile  il  risarcimento  del   danno   all'immagine,
estendendola ai delitti a danno della  pubblica  amministrazione.  Ma
questo allargamento, che come si e' visto non e' applicabile  ratione
temporis al presente giudizio, non sembra risolvere il  problema;  ed
infatti,   se   con   l'espressione   «a   danno    della    pubblica
amministrazione» si intendono i soli delitti che procurano  un  danno
patrimoniale all'amministrazione, e  cioe'  tutti  quei  delitti  nei
quali l'amministrazione,  ritenendosi  danneggiata  puo'  costituirsi
parte civile, si arriverebbe all'aberrante conclusione  di  escludere
tutti i reati nei quali l'amministrazione, rivestendo la qualifica di
responsabile civile, non puo' costituirsi parte civile e  quelli  nei
quali l'abuso della funzione pubblica  e'  previsto  come  aggravante
specifica. 
    Si pensi al delitto di tortura, previsto  dall'art.  613-bis  del
codice penale, introdotto come sopra detto dalla  recentissima  legge
n. 110/2017,  che,  sebbene  preveda  come  aggravante  specifica  la
commissione del fatto da parte di «un  pubblico  ufficiale  o  di  un
incaricato di un  pubblico  servizio,  con  abuso  dei  poteri  o  in
violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio» ed  abbia
una pena edittale (reclusione da cinque  a  dodici  anni)  nettamente
superiore a quella prevista per l'abuso d'ufficio (reclusione da  uno
a  quattro  anni)  o   della   truffa   ai   danni   della   pubblica
amministrazione (reclusione da uno a cinque anni e multa da € 309 a €
1.549) non consente l'esercizio dell'azione per il  risarcimento  del
danno all'immagine, non essendo ne' un  delitto  contro  la  pubblica
amministrazione ne' un delitto a danno dell'amministrazione. 
    Altrettanto irrazionale e' prevedere che  i  reati  in  questione
vengano previamente accertati con sentenza  di  condanna  passata  in
giudicato.  Innanzi  tutto,  va  evidenziato  che  il  requisito  del
preventivo  giudicato  penale  opera,  di  fatto,  soltanto  per   la
giurisdizione contabile. La giurisprudenza della Cassazione, infatti,
ha ritenuto legittima la condanna per il danno all'immagine a  favore
dell'amministrazione, costituita parte  civile,  sia  contestualmente
alla condanna penale sia nell'ipotesi di reato dichiarato prescritto,
argomentando dall'esistenza riconosciuta nel diritto vivente  del  cd
doppio binario,  consistente  nella  reciproca  indipendenza  tra  la
giurisdizione civile e  penale,  e  quella  contabile,  anche  quando
investono un  medesimo  fatto  materiale,  sicche'  non  si  pone  un
problema di giurisdizione ma di proponibilita' dell'azione  (sentenze
48603 e 35205 del 2017). Alla luce di questa giurisprudenza, recepita
nella relazione di' orientamento del massimario della  Cassazione  n.
81/2017, e' solo il pubblico ministero contabile che  deve  attendere
il passaggio in giudicato della sentenza di condanna e che in caso di
dichiarazione di prescrizione del reato non puo' esercitare l'azione. 
    In tal  modo,  oltre  all'evidente  irrazionalita'  della  norma,
risulta  violato   anche   il   principio   di   effettivita'   della
giurisdizione, il quale  implica  che  il  processo  deve  essere  lo
strumento attraverso cui il soggetto leso puo'  ottenere,  ricorrendo
al giudice, tutto, e proprio tutto, quello che gli spetta in base  al
diritto sostanziale. Esso e' volto a presidiare  l'adeguatezza  degli
strumenti processuali posti a disposizione  dall'ordinamento  per  la
tutela in giudizio dei diritti ed e' sancito,  per  la  giurisdizione
contabile  dall'art.  2  del  codice  di  giustizia  contabile,   che
costituisce norma interposta  dell'art.  103,  secondo  comma,  della
Costituzione. 
    Inoltre, l'irrazionalita' della previsione di un giudicato penale
di condanna si evidenzia anche con  riferimento  alle  ipotesi  nelle
quali l'accertamento  dei  fatti  da  parte  del  giudice  penale  ha
comportato  la  dichiarazione  di  prescrizione  del  reato  e,  come
avvenuto   nella   fattispecie   oggetto   del   presente   giudizio,
l'accertamento della responsabilita' degli imputati ai  soli  effetti
civili, con conseguente condanna al  risarcimento  del  danno,  anche
delle amministrazioni responsabili civili. 
    In questi casi accertamento del fatto compiuto dal giudice penale
e' inesistente a fini della risarcibilita'  del  danno  all'immagine,
mentre ai fini civili, non sole e' rilevante ma condiziona  anche  la
pronunzia del giudice penale.  La  consolidata  giurisprudenza  della
Corte di cassazione, infatti, ha affermato «che deve essere  ritenuto
principio inderogabile del processo  penale  quello  secondo  cui  la
condanna al risarcimento o alle restituzioni puo' essere  pronunciata
solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilita' penale
dell'imputato; anche se la estinzione del reato non gli  consente  di
pronunziare (o di confermare) la condanna penale» (Cass. pen. n. 1748
del 2006) ed ha precisato che, in presenza della causa estintiva  del
reato, si impone un esame approfondito di tutto quanto rilevi ai fini
della responsabilita' civile con la conseguenza  che  «se  da  questo
esame emerge la prova  della  innocenza,  si  dovra'  ricorrere  alla
corrispondente   formula   assolutoria   in   quanto   l'obbligo   di
declaratoria immediata della causa estintiva si basa sul principio di
economia processuale: pertanto, quando l'esame ex professo  di  altri
aspetti e' effettuato, sia pure per esigenze di decisione non penale,
l'accertamento effettuato non puo' essere  posto  nel  nulla  e  puo'
portare ad una assoluzione di merito, riprendendo vigore come  canone
interpretativo quello del favor rei», mentre «qualora non emerga  che
il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso,  ecc.,  non
potra' addivenirsi ad una pronuncia assolutoria» (Cass. pen. n.  1748
del 2006, ripresa e condivisa da Cass. SU penali n. 35490  del  2009,
Cass. SU penali n. 40109 del 2013 nonche' Cass.  pen.  n.  14522  del
2009, n. 3869 del 2014 e da ultimo n. 29499 del 2017). 
    L'irrazionalita'  della  norma  in  questione  si  trasforma   in
manifesta irragionevolezza se si esamina  la  disciplina  derogatoria
contenuta nelle disposizioni richiamate al punto 4. 
    Nelle suddette ipotesi  l'azionabilita'  del  danno  all'immagine
prescinde  dalla  previa  sentenza  penale  di  condanna  passata  in
giudicato (lettere c e d) ed  addirittura  dalla  commissione  di  un
qualsiasi reato (lettere a e b). 
    Quanto  alla  mancanza  di  un  preventivo  giudicato  penale  di
condanna  va  ricordata  la  possibilita'  prevista  dagli   articoli
55-quater,  comma  3-quater  e  55-quinquies  comma  2  del   decreto
legislativo 30 marzo 2001, n.  165,  come  modificato  dall'art.  16,
comma 1 del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, di chiedere il
danno all'immagine nei confronti dei  cd  «furbetti  del  cartellino»
quantificandone persino l'ammontare («l'eventuale condanna  non  puo'
essere  inferiore  a  sei   mensilita'   dell'ultimo   stipendio   in
godimento»), indipendentemente dall'esito  del  procedimento  penale.
Infatti,  dopo  aver  disposto   termini   brevissimi   per   l'avvio
(contestualmente al provvedimento di sospensione da adottare entro 48
ore dalla conoscenza del fatto) e la  conclusione  (trenta  giorni  a
fronte dei centoventi giorni normalmente previsti)  del  procedimento
disciplinare, la norma dispone che «la denuncia al pubblico ministero
e la segnalazione alla competente procura regionale della  Corte  dei
conti  avvengono  entro  venti  giorni  dall'avvio  del  procedimento
disciplinare. La Procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i
presupposti, emette invito a dedurre per danno d'immagine  entro  tre
mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento. L'azione  di
responsabilita' e' esercitata, con le modalita' e nei termini di  cui
all'art. 5 del decreto-legge 15 novembre 1993,  n.  453,  convertito,
con modificazioni, dalla legge  14  gennaio  1994,  n.  19,  entro  i
centocinquanta giorni successivi alla denuncia, senza possibilita' di
proroga"  In  tal  senso  si  e'  espressa  anche  la  giurisprudenza
contabile, che ha affermato l'esistenza di  «indiscutibili  caratteri
di autonomia» tra la fattispecie contemplata dall'art.  55-quinquies,
e quella,  piu'  generale,  prevista,  dall'art.  17,  comma  30-ter,
decreto-legge n. 78/2009, precisando che con  la  suddetta  norma  il
legislatore  ha  «voluto  prescindere,  ai  fini  della   punibilita'
erariale  della  fattispecie,  da  un  previo  pronunciamento   sulla
responsabilita' penale» come «e' chiaramente  dimostrato  dall'inciso
contenuto nel secondo comma  dell'art.  55-quinquies,  a  tenore  del
quale si puo' procedere all'applicazione  della  norma  ..  ferme  la
responsabilita' penale e  disciplinare  e  le  relative  sanzioni...»
(sezione II appello 662/2017). 
    Quanto alla mancata commissione da parte del responsabile  di  un
qualsiasi reato, vanno richiamati l'art. 1, comma 12, della  legge  6
novembre 2012, n. 190, e l'art. 46 del decreto legislativo  14  marzo
2013, n. 33, come modificato dall'art. 37 del decreto legislativo  25
maggio 2016, n. 97. La prima disposizione prevede che il Responsabile
della prevenzione della corruzione e della trasparenza  possa  essere
citato in giudizio  «per  il  danno  erariale  e  all'immagine  della
pubblica  amministrazione»,  qualora   venga   commesso   all'interno
dell'amministrazione, un reato di corruzione, accertato con  sentenza
passata in giudicato; la seconda prevede  che,  per  il  responsabile
della  trasparenza,  il  mancato  adempimento   degli   obblighi   di
pubblicazione previsti dalla  normativa  vigente  e  il  rifiuto,  il
differimento  e  la  limitazione  dell'accesso  civico  costituiscono
«causa     di     responsabilita'     per     danno      all'immagine
dell'amministrazione». 
    Osserva il Collegio che costituisce ormai jus  receptum,  secondo
un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 codice
civile,  che  il  danno  non  patrimoniale  e'   risarcibile,   senza
necessita' di un'espressa previsione  legislativa,  quando  il  fatto
illecito, non necessariamente configurabile come reato, ha violato in
modo grave i diritti inviolabili della persona, come tali oggetto  di
tutela costituzionale (ex multis Cass.  4542/2012,  Cass.  SU  civili
26972/08 e 6572/06) e che  la  tutela  dell'immagine  della  pubblica
amministrazione trova il suo fondamento nell'art. 97, secondo  comma,
della costituzione,  il  quale  «impone  la  costruzione,  sul  piano
legislativo, di un modello di  pubblica  amministrazione  che  ispiri
costantemente la sua azione al  rispetto  dei  principi  generali  di
efficacia, efficienza  e  imparzialita'.  Si  tratta  di  regole  che
conformano, all'"interno» le modalita' di svolgimento  dell'attivita'
amministrativa. E' indubbio come sussista una stretta connessione tra
la tutela dell'immagine della pubblica amministrazione e il  rispetto
del suddetto precetto costituzionale. Puo'  ritenersi,  infatti,  che
l'autorita'  pubblica  sia  titolare  di  un   diritto   "personale",
rappresentato dall'immagine che i consociati abbiano delle  modalita'
di azione conforme ai canoni del buon andamento e dell'imparzialita'.
Tale relazione tendenzialmente esistente  tra  le  regole  "interne",
improntate al rispetto dei predetti canoni, e la proiezione "esterna"
di esse, giustifica il riconoscimento, in  capo  all'amministrazione,
di  una  tutela  risarcitoria»  (Corte  costituzionale  sentenza   n.
355/2010 punto 16 della parte in diritto). 
    Il  diritto  all'immagine  costituisce,  pertanto,   un   diritto
inviolabile  della  persona  giuridica  pubblica  che  trova  il  suo
fondamento nel principio di  buon  andamento  sancito  dall'art.  97,
secondo comma, della Costituzione.  Diritto  che  viene  leso  quando
l'amministrazione, a causa della  condotta  illecita  perpetrata  dai
dipendenti infedeli, perde credibilita' e la fiducia dei cittadini  -
amministrati, poiche' ingenera in questi ultimi la convinzione che il
comportamento illecito posto in essere dal dipendente rappresenti  il
modo in cui essa agisce  ordinariamente.  Da  cio'  consegue  che  un
comportamento  illecito  privo  di  rilevanza  penale   puo'   ledere
l'immagine in misura maggiore rispetto ad illeciti costituenti  anche
reati, non solo perche' ingenera nei  cittadini  la  convinzione  che
l'azione  dell'amministrazione   sia   sistematicamente   inefficace,
inefficiente   ed   antieconomica,   ma   perche'    evidenzia    una
deresponsabilizzazione  dell'intero  apparato,  incapace  di   venire
incontro  alle  necessita'  degli  utenti,  come   dimostrato   dalla
risonanza e diffusione dei fenomeni cd di  mala  amministrazione.  Un
illecito non penale, consistente ad esempio, come  nella  fattispecie
del presente giudizio, in omessa vigilanza,  puo'  causare  un  danno
maggiore   di   una   condotta   penalmente   rilevante,   anche   in
considerazione della frequenza e ripetitivita' di tali comportamenti. 
    In  altre  parole  cio'  che   effettivamente   lede   l'immagine
dell'amministrazione non e' la commissione di un determinato reato da
parte di un dipendente infedele, quanto l'esistenza di  un  illecito,
anche   penalmente   non   rilevante,   che   denota   l'inefficienza
dell'apparato e la  sua  incapacita'  di  agire,  secondo  il  canone
sancito dall'art. 97, secondo comma. Cost. E' questa la  ratio  delle
norme sopra richiamate che prevedono  la  responsabilita'  per  danno
all'immagine dell'amministrazione del responsabile della  prevenzione
della corruzione e della trasparenza 
    Il cd Lodo Bernardo, emanato «all'evidente scopo di consentire un
esercizio dell'attivita'  di  amministrazione  della  cosa  pubblica,
oltre che piu' efficace ed efficiente, il piu'  possibile  scevro  da
appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente onerosi,  per
chi e' chiamato, appunto, a  porla  in  essere»,  (sentenza  355/2010
punto 8 del diritto), paradossalmente viola proprio il canone di buon
andamento che intendeva tutelare, non consentendo  la  risarcibilita'
del danno all'immagine proprio  nei  casi  di  maggiore  inefficienza
dell'amministrazione. 
    In conclusione, il Collegio ritiene irrazionale aver collegato la
risarcibilita' del danno all'immagine alla commissione di determinati
reati, impedendo che il predetto danno possa essere perseguito  anche
quando e' causato da comportamenti illeciti penalmente non  rilevanti
e nell'aver richiesto che  il  delitto per  il  quale  e'  consentito
l'esercizio dell'azione  venga  previamente  accertato  con  sentenza
penale di condanna passata in  giudicato,  perche'  in  tal  modo  la
risarcibilita' del danno all'immagine non ha alcuna  connessione  con
la effettiva gravita' della lesione causata dalla condotta illecita. 
    Tale  irrazionalita'  risulta  avvalorata  dalle   norme   emesse
successivamente  al  Lodo  Bernardo,  che   privano   la   disciplina
legislativa sul danno all'immagine di una  propria  coerenza  logica,
con  la  aberrante  conseguenza  che  e'  possibile   richiedere   il
risarcmento  del  danno  all'immagine  al  pubblico  dipendente   che
giustifica l'assenza dal servizio, magari di soli due o  tre  giorni,
mediante una certificazione medica falsa, o attestante falsamente uno
stato  di  malattia,  mentre  ne'  e'  impedita  l'azionabilita'  nei
confronti di chi ha commesso, o ha impedito che  venissero  commessi,
fatti che hanno oscurato l'immagine  dell'intera  Nazione,  tanto  da
essere  definiti  da  Amnesty  International  come  «la  piu'  grande
sospensione dei diritti umani  e  democratici  dalla  Seconda  guerra
mondiale  in  Europa».  Questa  conclusione   appare   manifestamente
illogica, irrazionale, intrinsecamente contraddittoria e contraria al
piu' elementare senso di giustizia.